mercoledì 20 settembre 2017

VINI & VITIGNI: IL VINO GIAPPONESE AUMENTA LA SUA PRODUZIONE

VINI & VITIGNI: IL VINO GIAPPONESE AUMENTA LA SUA PRODUZIONE: Nell’isola più settentrionale dell'arcipelago, l’isola di Hokkaido, terra di vulcani, montagne, laghi e sorgenti termali che, anche nei...

IL VINO GIAPPONESE AUMENTA LA SUA PRODUZIONE


Nell’isola più settentrionale dell'arcipelago, l’isola di Hokkaido, terra di vulcani, montagne, laghi e sorgenti termali che, anche nei mesi più caldi, gode di un clima fresco e secco, rispetto al caldo torrido delle isole più a sud, sta aumentando la produzione di vino giapponese.

In Giappone, la cultura del vino è piuttosto recente a causa del fatto che la sua diffusione è stata sempre limitata dalle antichissime tradizioni di questo Paese, da sempre chiuso alle influenze occidentali, che lo legavano al consumo di tè, sakè, birra e whisky. All’inizio era prodotto all’80% con vini d’importazione e per il restante 20% si aggiungeva del vino locale: secondo la legislazione nazionale, bastava il 5% di componenti locali per definirlo “vino giapponese” e questa fu una delle ragione del rifiuto da parte della CEE.
Solo di recente le regioni hanno introdotto il Gensanchi Hyoji, un marchio per indicare i vini ottenuti da sole uve giapponesi e solo di determinate zone – concetto simile alle nostre DOC o alle AVA americane.
La storia del vino in Giappone ebbe il suo vero e proprio successo negli anni della cosiddetta epoca “lumiere”, tra il 1868 ed il 1912, quando l’esercito Imperiale si apprestava a vivere il colonialismo e si cercò, dunque, un sostituto del sakè, in quanto il riso era riservato esclusivamente per sfamare il popolo, come bevanda alcolica per alleggerire il morale delle truppe.
Fu allora, nel 1870, che due uomini d’affari giapponesi si lanciarono nel business cominciando a produrre, quattro anni più tardi, circa 900 litri di bianco e 1800 litri di rosso con scarsi risultati, tanto che furono costretti a chiudere nel 1877. Fino al 1945 tutta la produzione di vino era destinata all’esercito che fu anche l’unico consumatore negli anni seguenti. Fu solo nel 1970, in occasione dell’esposizione universale di Osaka, che furono aperte le frontiere alle bevande alcoliche straniere e fu allora che il vino divenne una bevanda chic e ricercata, tanto che dieci anni dopo venne aperto il primo Wine Bar nella capitale giapponese.

Oggi i vigneti giapponesi si estendono su circa 20.000 ettari sulle due isole di Hokkaido e Honshu: il cuore della coltivazione è situato ad ovest di Tokyo nei dipartimenti di Yamanashi, Nagano e Kanagawa. La regione maggiormente portata alla coltivazione della vite è quella di Yamanashi, a circa un centinaio di km dalla capitale Tokyo, sulle pendici occidentali del monte Fuji; sebbene il clima non sia particolarmente favorevole alla coltivazione enologica per la pluviometria molto alta ed i terroir troppo fertili e con alta dose di acidità, il vino giapponese, collegato al successo sempre crescente del sushi, si sta sviluppando con ottimi risultati grazie alla scelta e alla coltivazione di vitigni che ben si sono adattati al clima: il Muller Thurgau, il Riesling, il Gewurztraminer a bacca bianca; il locale Koshu a bacca rossa; il Muscat Bailey, il Cabernet Franc, il Merlot a bacca nera.
Si producono vini rossi o rosati molto semplici, con profumi floreali e fruttati, con una viticoltura a bassa densità di impianto e con sistema di allevamento a tendone.
In particolare il vino prodotto dal Koshu, vitigno a bacca rossa ma vinificato in rosato, originario del Caucaso ed arrivato in Giappone grazie alla via della seta, produce uva molto carnosa e gustosa, dalla buccia leggermente rosa: il vino prodotto è tendenzialmente aromatico, con una grande finezza e leggerezza di corpo e con un tasso alcolico molto basso, particolarmente adatto alla cucina giapponese; è stato descritto come “un vino molto promettente, leggero, dalla grande personalità, flessibile in quanto si adatta a numerosi stili di cucina”.
Hokkaidō Kerner è un altro vino degno di menzione: bianco asciutto, fermentato ad una giusta temperatura, si adatta bene ai piatti di pesce e di crostacei.

Di recente, il nord del Giappone è diventato, dopo la Gran Bretagna, anche l’ultima frontiera dello spumante: in soli quattro mesi è stata costruita una nuova cantina con criteri antisismici e circondata da un vigneto di 17 ettari. Con un finanziamento giapponese ma con impostazione e guida tecnologica di esperti italiani.

Nobuo Oda, presidente della Camel Group, con la consulenza dell’enologo italiano Riccardo Cotarella, qua ha acquistato e impiantato, quattro anni fa, vigneti di bianchi Kerner e Chardonnay, di rossi Regent, Pinot Noir e Lemberger.
Ora sono in vendita le prime bottiglie e gli spumanti di quelle uve, secondo Cotarella, verranno portati al Vinitaly 2018, metà Metodo classico, metà Charmat.
E’, inoltre, in previsione un grande rosso, prodotto tipico di quella terra.
In tanto fervore di attività, i sindaci della regione di Hokkaido affermano che, in effetti, stanno aumentano i corsi di enologia ed è in continua crescita il numero dei giovani che vogliono aprire cantine. Un cambiamento di rotta in un Paese abituato a superalcolici e birre ma che ora sta aumentando il consumo di vino, prodotto che,
anche se ancora piuttosto di nicchia, viene ad apparire sempre più nelle tavole giapponesi, sopratutto per merito delle donne e dei giovani.

sabato 9 settembre 2017

VINI & VITIGNI: UNA VISITA A FURORE

VINI & VITIGNI: UNA VISITA A FURORE: Andare a Furore è sempre una gita particolarmente gradevole ma, in particolare, alloggiare all’Hotel Bacco e gustare una cena cucinata dalla...

UNA VISITA A FURORE

Andare a Furore è sempre una gita particolarmente gradevole ma, in particolare, alloggiare all’Hotel Bacco e gustare una cena cucinata dalla signora Erminia con i piatti accompagnati dai vini dell’Azienda di Marisa Cuomo è ancora più intrigante.
All’Hotel Bacco si sono potuti gustare un Baccalà pastellato su vellutata di patate accompagnato da un calice di Furore Bianco Costa d’Amalfi, un piatto di Linguine alla colatura di alici con Costa d’Amalfi bianco, i Cavatelli alle foglie di cappero con Furore Rosso e i totani alla volpe pescatrice con Furore Rosso Riserva ed, infine, Tozzetti all’Elisir con Fiorduva.
Se ottimi sono stati l’abbinamento e la scelta dei vini, ineguagliabile è stata la compagnia di Marisa Cuomo e di Andrea Ferraioli come compagni di cena.
Sui vini dell’azienda di Furore credo sia stato detto tutto ormai; uno degli ultimi premi per la loro produzione è stato assegnato solo pochi giorni fa ed è la prestigiosa "Targa Internazionale del Leon d'Oro di San Marco", riservata a un massimo di soli cinque imprenditori che saranno nominati "Cavalieri del Lavoro", riconoscimento riservato alle aziende che contribuiscono alla crescita dell'economia italiana.
E nell’ambito di una cena festosa e amichevole, Andrea ha raccontato la storia delle famiglie Ferraioli e Cuomo, in contatto dal primo dopo guerra per una serie di vicende matrimoniali e di come entrambe siano state legate al mondo del vino fin dal 18° secolo, quando il vino era una bevanda, un alimento che doveva apportare soprattutto calorie. Dopo il matrimonio con Marisa, si è creata l’azienda che è cresciuta, dal punto di vista imprenditoriale, con il supporto di tanti piccoli produttori, conferitori di uve.
La coppia emana una complicità lavorativa e di vita che va oltre le parole, la loro complementarietà si manifesta in più occasioni: Marisa solida e di poche parole, Andrea un vulcano di iniziative e di simpatia.
Proprio Andrea, l’indomani, guida la visita alla cantina e alla bottaia e racconta la storia dell’azienda, nata con fatica nel 1983 in un territorio con scarse risorse economiche e in un contesto culturalmente non facile, dove uno dei problemi principali incontrati è stata la disomogeneità dei territori dal punto di vista pedoclimatico perché si tratta di fazzoletti di terra aggrappati alla roccia.
Ma i tantissimi vitigni locali, le ben 42 varietà di autoctoni, alcuni dei quali nemmeno ancora classificati, ha reso questa terra unica e il suo vino non imitabile in nessun altro luogo. Per questo motivo, Marisa e Andrea, su consiglio dell’ enologo, Luigi Mojo, consulente della cantina, hanno deciso di valorizzare le peculiarità dei vitigni della loro terra.
La bottaia delle Cantine Marisa Cuomo è scavata nella roccia e Andrea mostra con legittimo orgoglio le pietre laviche di 250 chili su cui poggiano le travi di castagno che sorreggono le barrique, ad una umidità costante al 90%. Subito fuori, un micro laboratorio per le analisi tecnico-enologiche.
La visita continua con i vigneti con pendenze anche del 60%, allevati in un territorio dolomitico calcareo, da ambiente marino, in seguito arricchito da ceneri e lapilli e rinfrescato dal costante influsso della brezza marina.
E mentre, con gli occhi brillanti, Andrea afferma che
“fare vini in questa terra è perdente, è difficile” ma che “ io vedo oltre le montagne quello che succederà dopo, ho la capacità di vedere oltre gli ostacoli”, ci indica gli stretti e ripidissimi terrazzamenti con piante a piede franco, dove è praticamente impossibile un sistema di meccanizzazione. Ma le uve di questa terra sono la base di grandi vini, in particolare il Ripoli, il Fenile, la Ginestra e poi ancora l’Aglianico, la Biancolella, la Falanghina e tutti gli altri.
Il Fiorduva, fiore all’occhiello dell’Azienda, che prende il nome dal fiordo di Furore, nacque nel 1995 e fu degustato nel 2000 da Luigi Veronelli che lo definì” un vino appassionante che sa di roccia e di mare”.
Da allora il Fiorduva viaggia per il mondo.